“È così che le notizie si vengono a sapere”

E’ il 14 maggio 1986.
La ‘Montagnetta’ di “San Siro” prende il nome dal vicino stadio. E’ stata costruita con i rifiuti. Alta, sempre più alta, sempre più grande. Poi l’erba è cresciuta e dopo l’erba gli alberi. Ora è un’oasi di verde e di pace, così vicina e così lontana dalla Milano di tutti i giorni.
Hanno innalzato un tendone da circo e stiamo tutti in fila per entrare a vedere il concerto di Joan Baez. Siamo in tanti, ma pochi per un mito che negli anni ‘60 radunava centinaia di migliaia di ragazzi, quando saliva sul palco e cantava insieme a uno strano ragazzo americano di origine ebrea che si chiamava Robert Allen Zimmerman, ma si faceva chiamare Bob Dylan.
L’atmosfera è un po’ malinconica: noi quarantenni ci osserviamo come fossimo i sopravvissuti di un’epoca che sta sbiadendo nel ricordo. Lei entra in scena: non è più quella ragazza ‘infuocata’ che insieme a Bob cantava la sua rabbia per i morti in Vietnam, bianchi o gialli che fossero.

Una signora della nostra età o poco più, vestita con una lunga tunica colorata. Si accompagna solo con una chitarra, nessuna orchestra, nessun effetto speciale. Canta le stesse canzoni di una volta, ma con grande dolcezza: quasi rassegnazione per un mondo molto, troppo difficile da cambiare. Ti coinvolge, ti fa venire la pelle d’oca. Vuoi cantare con lei, ma lei si ferma: «Scusate, — dice in un inglese frammezzato da qualche parola in italiano —« sono molto felice di ciò che state facendo, ma se cantate, non sento più la mia voce e vado fuori tempo». Ed anche questo lo dice con molta dolcezza, come per farsi perdonare. Noi ubbidiamo, limitandoci a sussurrare le canzoni dei nostri vent’anni e a scaricare i nostri Bic in fiammelle di lacrime. Chiude il concerto in modo totalmente imprevisto. Intona le parole di “C’era un ragazzo” di Morandi ed allora ci dice di cantare con lei, perchè l’italiano non è il suo forte.
Esce in maniera semplice, così come semplice, ma grande. E’ stato il suo concerto.
Usciamo con una sensazione dolce amara, ma felici.
Una voce dice:
<Chi?>

<Sicuro?>
E’ così che le notizie si vengono a sapere: smozzicate frasi di persone diverse.
<E’ morto?>
< No è vivo, ma ha respirato le fiamme.>
< No, è morto, l’ha detto ora la radio!>.
Elio, un pilota d’altri tempi. Di famiglia ricca, bello, distinto: un “signore” di 28 anni. Elio che nel G.P. del Sud Africa, mentre gli Ecclestone strepitavano contro lo sciopero dei piloti, minacciando di licenziarli tutti e di sostituirli, raggruppava i colleghi nella hall dell’albergo, si sedeva al piano e suonava Chopin. Poi cambiava ed eseguiva canzoni moderne, mentre gli altri piloti cantavano, come fossero tutti normali ragazzi, con tanta voglia di divertirsi. E tali erano, come tali sono quelli di oggi, anche se spesso ci viene difficile considerarli tali.
Elio, un pilota stimato meno di quello che valeva ed anch’io non ero convinto del suo talento. Solo dopo ci saremmo accorti che i compagni di squadra a cui teneva testa e che spesso batteva, portavano il nome di Mansell, prima, e di un ragazzo brasiliano, poi, che si chiamava Da Silva, ma che preferiva correre col cognome della madre: Senna.
Quattordici Maggio Millenovecentottantasei. Prove private della Brabham-Bmw: un alettone che si stacca, proprio come succede troppo spesso ancora oggi, e poi il fuoco.

Quel maledetto fuoco che ci perseguitava da vent’anni e che eravamo vicini a sconfiggere: l’industria militare stava per togliere il segreto sul materiale usato per i serbatoi dei caccia e permetterne la commercializzazione, insieme alle valvole di chiusura automatica dei condotti della benzina, in caso d’urto. Se ancora oggi i telegiornali ti fanno vedere morti sulle strade per l’auto in fiamme, è solo per una ragione di costi: è più economico rimbambire i ragazzi con altoparlanti da 100 W, che proteggerli dal fuoco.
Il circuito di Le Castellet era stupendo ed anche considerato uno dei più sicuri.
Quando si staccò l’alettone, la Brabham stava entrando in quinta piena a 260 km/h in una esse che, prima che i carichi aerodinamici raggiungessero valori assurdi – come oggi – si percorreva scalando quarta/terza e ‘lavorando’ di gas e di sterzo. Una ‘ esse’ che faceva la differenza.
Quel giorno con Elio, morì anche il “Le Castellet”.

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Si ringrazia sinceramente “P.” per la testimonianza.

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