L’editoriale, a firma di Ayrton Senna, è comparso sulla testata settimanale “Autosprint”, nel numero 22/1986. Con delle parole perentorie, uno stile serrato ed essenziale, Senna lancia, allo stesso tempo, un’accusa che è anche un grido di allarme, e sembra quasi volersi addebitare le colpe per l’accaduto, una sorta di responsabilità indiretta di matrice morale. Con i suoi approfondimenti e i suoi velati riferimenti, pare quasi far rivivere la dialettica di Jackie Stewart, andando a toccare alcune tematiche già di attualità scottante, più o meno tre lustri prima. Tra esse, annoveriamo il sempre più crescente ruolo dell’Associazione dei piloti, a cavallo fra gli anni sessanta e settanta, e l’argomento scivoloso della sicurezza latente di molti fra i circuiti europei, in particolar modo quelli, quasi privilegiati, inglesi. All’epoca di Stewart, i decessi in pista di Courage, Rindt e Siffert avevano sollevato questioni a cui si erano date risposte contraddittorie. La dipartita del friburghese, in particolare, aveva alimentato moltissime discussioni sul da farsi quanto alle misure per il controllo degli incendi, misure che non avrebbero dovuto, nell’ottica dell’interesse dei costruttori, portare all’aumento del peso delle vetture. Così, ebbero modo di avvicendarsi le indagini teoriche e gli esperimenti pratici sul modo di approcciarsi al fuoco. Si susseguirono incessantemente per qualche mese gli elicotteri-pompiere, l’Elefante bianco, i serbatoi Autodelta al fluobrene, la sacca Uniroyal, il mezzo antincendio Dubler e altro. Alcune discussioni erano approdate a qualche timida svolta: la presa di coscienza di rallentare alcuni circuiti con delle chicane (vedasi l’esperimento monzese del 1972 della loro reintroduzione a distanza di decenni), o la ricollocazione dei box in altri luoghi del tracciato, oppure come non ricordare l’antesignana della safety-car nella corsa di Clermont-Ferrand del 1972, una vettura guidata dall’ottimo Vic Elford, recentemente scomparso, la quale, solerte, prestò i primi soccorsi alla sfortunata retina di Helmut Marko. Chiusa questa mia breve introduzione, vi lascio alla lettura.
L’anno scorso Elio De Angelis era il mio compagno di squadra alla Lotus. Con lui ho avuto un rapporto professionale non dei migliori, ma di questo aspetto non voglio nemmeno parlare: c’era una grossa rivalità tra noi due. Dal lato umano, però, ho sempre stimato Elio. Era un uomo molto intelligente e gentile, uno che correva per il puro piacere di correre. In questo senso rappresentava forse ciò che un pilota dovrebbe sempre essere, un gentlemen. Troppo spesso noi della Formula 1 dimentichiamo l’aspetto umano. Solo quando capita l’irreparabile ci fermiamo, ci guardiamo attorno e pensiamo a quello che davvero è importante.
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